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Massalubrense, 2 aprile 2023 / “Con San Francesco di Paola nella settimana di Passione”. Lettera di P. Gian Franco Scarpitta ai terziari

   Carissimi Terziari,
Nella coincidenza dell’inizio della Settimana Santa con la memoria di San Francesco di Paola, la liturgia ci impedisce di rendere omaggio al nostro Eremita nella forma diretta, ma questo non impedisce che lo stesso Santo ci ispiri amore vero la passione del Signore che è l’elemento risolutivo della rivelazione che Dio fa all’uomo. Anzi, proprio in questo mistero indicibile associato all’incarnazione Dio, Dio rivela effettivamente se stesso.
A prescindere dallo zelo e dal fermento che i preparativi di questa Settimana imminente comporta, non possiamo che affermare che ci appropinquiamo a viverla motivati da una particolare gioia, che ci proviene dal nostro carisma e dall’amore che San Francesco di Paola nutriva verso il Cristo penitente e in particolare verso il Crocifisso. Se il carisma proprio dei Minimi è la penitenza, i sette giorni che ci separano dalla Pasqua ci aiutano a trovare nei patimenti di Cristo, nella sua immolazione e nella sua resurrezione le ragioni per testimoniare, rivalutandolo di volta in volta, questo dono che lo Spirito Santo ha concesso al Santo Paolano e ai suoi discepoli.
 Proprio lo specifico evangelico che ci caratterizza ci sospinge ulteriormente alla conversione e alla radicalità in Dio, perché siamo edotti che è proprio il suo amore a spingerci alla conversione.
 
1) Nella celebrazione della Cena del Signore (Giovedi Santo) siamo coinvolti nel mistero del sacrificio di Gesù che si rinnova puntualmente sull’altare sotto le specie del pane e del vino: Melkisedek, quale sacerdote del Dio altissimo, offrì pane e vino tornando dalla  battaglia dei re, nell’atto di benedire Abramo (Gn 14, 18); Gesù nel pane e nel vino offre inequivocabilmente se stesso già nello spezzare il pane e nel ripartirlo ai suoi discepoli, essendo questo un atto emblematico di autodonazione da parte di ogni padre di famiglia verso i propri figli (Ratzinger). Nelle famose parole “questo è il mio Corpo… Questo è il calice del mio Sangue” anticipa la donazione estrema di sé sul patibolo, realizzando la definitiva alleanza fra Dio e l’uomo nel suo Sangue. E’ Cristo stesso che nell’Eucarestia si dona a tutti noi come pane vivo disceso dal Cielo di cui è indispensabile nutrirci per avere la via (Gv 6). Nel vino che diviene il suo Sangue secondo le sue stesse parole, Gesù ripresenta il sacrificio realizzato una volta per tutte sul Golgota per l’espiazione dei nostri peccati e per quelli del mondo intero (1Gv 2, 2), con le stesse prerogative di salvezza e di elevazione che scaturivano dalla croce. Nella celebrazione eucaristica si attua il memoriale della morte e della resurrezione del Signore, che non è una mera commemorazione, ma un ricordo che si riattualizza, riproponendo sempre gli stessi benefici. Gesù in essa, in forza dello Spirito Santo è davvero presente, realmente si dona a tutti noi e inequivocabilmente rinnova il sacrificio espiativo di se stesso sul Golgota.
  Dell’Eucarestia occorre alimentarci con fede, ben sapendo che Gesù stesso in forza dello Spirito agisce in noi con la sua forza santificante, sostenendoci e rincuorandoci giorno per giorno nei nostri itinerari e impegni quotidiani. L’Eucarestia è il modo di presenziare di Gesù morto e risorto nella nostra vita di tutti i giorni; il suo vivere in noi è identico a quando interagiva con i connazionali in Galilea e in Giudea e anche a noi dona i medesimi benefici di ricchezza e di sostegno spirituale che ci sono di supporto in ogni singola azione, se sappiamo vivere il Sacramento con fede radicale e non con distacco.
  In forza del predetto carisma ereditatoci dal Fondatore, la nostra Regola ci invita a guardare con riverenza alla Santa Messa e a parteciparvi con impegno e assiduità “affinchè corroborati in modo salutare dalla dolorosa passione di Cristo che si rinnova in essa, vi conserviate saldi nell’osservanza dei comandamenti di Dio. Vi suggeriamo anche di supplicare con devozione, durante la Messa, che la morte preziosa di Cristo diventi vita per voi, il suo dolore vostra medicina e la sua fatica riposo che nulla potrà distruggere”(Cap III, 10).
  Il sacrificio di Cristo perpetuato nel sacramento dell’Eucarestia ci ricolma di grazia e di benefici e diventa per noi vantaggioso ciò che Cristo ha sofferto nella sua immolazione patibolare, perché oggi come allora diventa fonte di ricchezza e di accrescimento per noi tutto ciò che per Gesù riguardò patimento, persecuzione, sofferenza e deperimento in croce.
  Tale sofferenza San Francesco la faceva propria nella stessa partecipazione al Sacramento, nell’orazione, nella preghiera e nell’offerta continua di sé, traendo dall’Eucarestia la motivazione alla fiducia, costanza e alla determinazione in ogni circostanza della sua vita. Del resto il “pane vivo disceso dal Cielo” è unico alimento essenziale senza il quale è impossibile camminare spediti verso i nostri obiettivi e con il quale per converso è possibile percorrere qualsiasi spazio guadagnando sempre terreno.

 2) Il Venerdì Santo è quello della vera regalità di Cristo. Il re dei Giudei non esercita alcun predominio distaccato e preponderante sul suo popolo, non vanta alcun potere e non si appropria di vantaggi o di acquisizioni. Piuttosto il suo regno è caratterizzato da una corona di spine appostagli per scherno sul capo, in fondo emblematica delle prerogative della vera regalità e del vero governo. Regnare infatti nell’ottica evangelica è sacrificarsi, umiliarsi e perdere anche se stessi per coloro  che ci vengo affidati. Orazio diceva che il vero regnare consiste nell’essere onesti; Gesù dimostra che regnare è amare senza riserve fino alla fine, fino alla perdita della propria dignità attraverso l’effusione del sangue. A caratterizzare il regno di Gesù non è soltanto il simbolo della corona spinosa, ma  soprattutto lo strumento inesorabile della sua immolazione.
  San Tommaso d’Acquino dice che Gesù, camminando sovraccarico verso il Golgota, non porta solamente la sua croce, ma anche la “croce per sé”, accettando risolutamente l’abbandono e la sottomissione senza riserve; porta con sé la croce come un monarca porterebbe uno scettro e il simbolo del tormento e del sacrificio diventa simbolo reale del governo e della regalità. Nella croce si realizza il vero essere re di Cristo, perché in essa si rivela la verità per intero per mezzo dell’amore (Bultman).
Il sangue sparso da Gesù ci risolleva e ci mette in condizioni di essere graditi a Dio affrancandoci dal peccato e dalla schiavitù dell’errore, poiché è sangue sacrificale di espiazione delle nostre colpe, prima scaturito da vittime animali offerti in oblazione e adesso versato dall’unico Agnello al quale appartiene la salvezza alla pari del Padre assiso sul trono (Ap 7, 10). Con questo sangue il Figlio di Dio tutte le pene che gli uomini dovrebbero espiare per i loro peccati, comprandoci così a caro prezzo (1Cor 6, 20; 7, 23).
Il Venerdì è anche quello della stoltezza e della pazzia. Un Dio crocifisso e impotente era infatti considerato inaudito e impensabile per il mondo giudaico; una divinità non raggiungibile dai percorsi della razionalità, della filosofia o dell’analisi scientifica era considerata insensata e irragionevole da parte di sapienti e raffinati intellettuali. Un Dio onnipotente che si mostrasse impotente e sottomesso all’uomo non era concepibile nel pensiero giudaico e non lo è tuttora per coloro che vorrebbero affidarsi a una Trascendenza dirompente, vendicativa e giustizialista. Si auspicherebbe un Dio risolutivo, imponente e categorico nei suoi interventi, un Dio che affermasse il suo potere indiscusso, rivendicando il primato che gli spetta attraverso coercizioni e azioni dirompenti. Il Dio di Gesù Cristo però è diverso dalle aspettative puramente nostrane: capovolge la logica di questo mondo e soprattutto non è un Dio che l’uomo possa  conquistare con le proprie forze e procedendo a tentoni. E’ un Dio amore e misericordia, che va egli stesso alla ricerca dell’uomo e nella manifestazione della sua potenza  sceglie proprio ciò che l’uomo tende ad estromettere e a rifiutare. Dio delibera proprio ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, ciò che è debole per confondere i forti (1Cor 1, 26); cosicchè, “mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci chiedono la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati è potenza di Dio e sapienza di Dio”(1Cor 1, 22 -24). Proprio in ciò che umanamente parlando è stolto e irragionevole, ossia nella croce e nella vulnerabilità, Dio manifesta la sua vera potenza. Proprio nell’autoconsegnarsi all’uomo con amore estremo e disinteressato Dio si mostra davvero eloquente nella sua grandezza. E questo non può che avvenire nella croce. In questo strumento in cui è Gesù suo Figlio è condannato ad essere appeso e vilipeso, Dio rende inequivocabile il suo amore per noi, riscattandoci dai nostri peccati, risollevando la nostra sorte e rendendoci meritori dinanzi al Padre, e in questo attesta senza ombra di dubbio che per lui l’onnipotenza si coniuga, anzi si esplicita nell’amore supremo e nel servizio, perché non c’è amore senza sacrificio e senza immolazione.
  Vi è nel nostro Fondatore un atteggiamento nei riguardi del Crocifisso del tutto singolare e peculiare, che non può non destare la nostra ammirazione e non può che istigarci a prendere in seria considerazione il nostro carisma. Francesco era ben consapevole della vera regalità e della vera grandezza di Dio che si palesano nel Cristo morto per noi.
  Con i suoi continui ricorsi ascetici alla mortificazione corporale, accompagnati dalla preghiera e dal frequente isolamento nella grotta o all’interno di una cella, il nostro Fondatore associava i propri patimenti fisici a quelli di Cristo sulla croce; così pure dedicava allo stesso Signore le continue vessazioni, le difficoltà, le ansie e le immancabili persecuzioni altrui che il rigore della sua scelta religiosa e penitente comportava.  In tal modo, sulla scia di Paolo, sobbarcandosi ogni sofferenza e accogliendo ogni avversità come opportunità, completava nella sua carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, ad edificazione del suo Corpo che è la Chiesa”(Col 1, 24). L’umiltà, la deferenza e la sottomissione con cui non si negò di partire per la Francia in obbedienza al monito del papa Sisto IV nonostante le sue preferenze lo rivolgessero altrove, la frustrazione di dover attendere occasioni più favorevoli per l’approvazione di una Regola speciale per il suo Ordine e l’accettazione di altre simili rinunce, comportarono che Francesco vivesse sulla sua persona che  Gesù “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”(Eb 5, 8).
  Il fascino del nostro Santo verso Gesù Crocifisso si estendeva anche all’ammirazione oggettiva, esteriore, dello stesso uomo Gesù riconosciuto come il Redentore, al punto che  non di rado lo si vedeva  riverso sul pavimento della sua cella mentre assumeva la stessa posizione di Gesù in croce.   Oppure lo si notava in posizione eretta dispiegare le braccia orizzontalmente irrigidendo le gambe e il costato, in modo da fare esperienza minima di quelli possono essere stati i patimenti di Gesù sulla croce per tutti noi.
  “Consumarsi per Cristo” era il proposito di vita condotto con premura e perseveranza in tutti i particolari da parte di Suor Consuelo Utrilla Lozano, Monaca del nostro Second’Ordine, che nella libera e incondizionata scelta di Cristo trovava motivo di gioia e di soddisfazione, che prontamente trasmetteva alle Consorelle del suo monastero anche nelle prove e nelle difficoltà immancabili della sua vita consacrata, nelle quali identificava se stessa con il Cristo sofferente che tuttavia le dava speranza di resurrezione e di gloria futura.

3) La croce non ha tuttavia l’ultima parola in Gesù. Pur essendo un percorso obbligato e sacrificato fino allo stremo, essa ha il suo epilogo non semplicemente nella resurrezione, ma nella fuoriuscita di Gesù di dal sepolcro, libero dai vincoli delle bende e del sudario, capace di divellere il masso possente che ostruisce l’ingresso del sepolcro, noncurante dell’oscurità che avvince quell’ambiente. Gesù risuscita nella forma totalizzante, avendo ragione della tomba che lo ostruisce e mostrando successivamente il suo corpo glorioso, invitto, non più soggetto a condizionamenti temporali, insomma glorioso e vittorioso. La resurrezione di Gesù è direttamente proporzionale al suo dolore, ai suoi patimenti e al suo defungere: nella misura in cui era prima conculcato, adesso è glorificato e innalzato al di sopra di tutte le creature (Fil 2, 9 -11). Risorgendo da morte, secondo la sua parola, Gesù darà la vita a tutti, sia nel senso immediato dell’oggi sia nella prospettiva del domani di eternità. “Io sono la risurrezione e la vita; chi vive in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno.” aveva detto a Marta,  dalla quale si era recato per “svegliare” l’amico Lazzaro che nel suo linguaggio misterico si era “addormentato”(Gv 11), cioè per richiamarlo dalla morte alla vita e per palesare in tal modo che egli stesso, Gesù Figlio di Dio, è la via, la verità e la vita per sempre”(Gv 14, 6).  Anche noi siamo destinati a risorgere con Cristo se davvero abbiamo sperato e vissuto in lui. Siamo destinati a una patria ventura ben differente verso la quale si volge la nostra speranza, cioè la patria dei Cieli (Fl 3, 20) che è la meta effettiva del nostro pellegrinaggio terreno, poiché scopo della fede è la salvezza delle anime (1Pt 1,9). Gesù Risorto ci rassicura che la morte è vinta per risolutamente e che quello che ci attende alla fine dei nostri giorni è un incontro amorevole con Dio Amore che ci darà la vita per sempre, nella perenne comunione con sé e con quanti ci hanno preceduti nella medesima patria ultima.
Anche al presente la vita stessa è un alternarsi fra morte e resurrezione continua nelle vicissitudini del presente. Nella stessa croce risiede il seme della vittoria; la prova contiene già essa stessa il germe del vantaggio che ne consegue e ad ogni lotta consegue sempre una vittoria come ad ogni corsa un traguardo. E’ consolante poter godere di ricompense dopo i patemi subiti; si prova soddisfazione nel raccogliere frutti dopo un’annosa coltura difficile del terreno e grande è la consolazione quando ai sacrifici seguono i premi e le ricompense, soprattutto quando siano inaspettate.
  Guardando al nostro Fondatore, che senza aspettarselo né minimamente desiderarlo si trovò ad essere oggetto di ammirazione da parte di nobili e illustri personaggi, non possiamo che considerare che al rigore della sua penitenza seguiva inaspettatamente la bellezza della ricompensa e della gloria. Francesco accettò con umiltà, mansuetudine e pazienza di non dover proseguire la sua vita tranquillamente nella sua amata Calabria quando fu costretto a partire per un viaggio che sapeva essere senza ritorno, come quello verso la Francia. Ciò nonostante la disciplina di obbedienza e di sottomissione che in quella circostanza applicò a se stesso gli procurò la considerazione prima del papa Sisto IV che lo accolse a Roma, quindi del re Luigi XI e successivamente di tutti gli altri reali e dei Signori dell’epoca. Anche se da queste prendeva le distanze, come pure era distaccato dallo sfarzo e dal lusso eccessivo e dalla vanità delle ricchezze, il nostro Uomo di Dio ebbe ad aver offerti onori e privilegi anche materiali, che erano pari ai sacrifici patiti in precedenza. La stessa beatificazione avvenuta nel Maggio del 1519, a soli 12 anni dal suo transito alla casa del Padre, fu la conseguenza della benevolenza che i monarchi francesi gli avevano tributato.
  Accettare con rassegnazione e umiltà di non aver approvati gli statuti del suo Ordine nei primi tempi, gli ottenne che successivamente il testo della Regola del suo amato Ordine venisse rivisto e approvato più volte fino alla stesura definita in ultimo da Giulio II.
  La speranza in San Francesco diventava certezza di gloria anche quando vide sorgere Conventi del suo Istituto Religioso al di là delle Alpi, nei paesi in cui forse mai si sarebbe immaginato che arrivassero i suoi frati.
  In questi e in molti altri casi il Santo Eremita di Paola ebbe a conseguire i benefici della radicalità evangelica della penitenza, che coincidono tutti con la Resurrezione. Nei frutti della sua umiltà, sella sua perseveranza e della sua carità radicale che scaturiva da una profonda interiorità con Dio, Francesco esperiva la Resurrezione e anzi non è esagerato affermare che Cristo stesso risorgeva nelle sue vittorie.
 Con queste sollecitazioni, vi rivolgo il mio augurio affinchè possiamo appropriarci nella vita di queste prerogative che sono di monito alla reale impostazione del carisma minimo che San Francesco ci ha lasciato, vivendo il quale possiamo davvero essere significativi ed edificanti in ordine alla vita ecclesiale e alla società per intero.
  Buona Settimana Santa e Buona Pasqua a tutti. 

                                                                                          P. Gian Franco Scarpitta