- a tappa Il soggettivismo si presta a giustificare le scelte di comodo e apre la porta al disimpegno morale (cfr. Lc 11,34-35; CCC 1776-1782). S. Francesco e la scelta della grotta
Tempo di attaccamenti impauriti, il nostro, invece che di slanci audaci. Tempo di idolatria del lavoro sul cui altare si immolano anche gli affetti più cari, amore smodato per la carriera per la quale si scende ad ogni sorta di compro- messo. Tempo di vischiosità dei legami familiari, da cui i giovani non riescono a divincolarsi. Se la propria vita è già satura di abbarbicamenti, affetti possessivi, preoccupazioni affannate, come potrà essere ospitale nei confronti di ciò che vene dall’Alto?
Anche oggi i granai pieni di cui parla il Vangelo sono un ideale a cui illusoriamente e insindacabilmente si affida la consistenza della propria vita.
Poiché oggi, nel mondo occidentale, viviamo una on- data di nuovo illuminismo o soggettivismo, comunque lo si voglia chiamare. E mentre l’illuminismo, movimento culturale del XVIII secolo fu caratterizzato dalla pretesa di poter risolvere i problemi della civiltà umana con i soli lumi della ragione, senza appellarsi alla Rivelazione ed alla Tradizione, nel secondo caso, nel pensiero filosofico moderno, il soggettivismo fa del soggetto, sia come singolo individuo (Soggetto empirico), sia come ragione umana (soggetto universale), la misura di tutte e cose non essendovi per lui altri criteri all’infuori delle sensazioni umane per distinguere il vero dal falso.
In poche parole il soggettivismo è la tendenza ad interpretare ogni fatto o evento in modo soggettivo; quindi in- teso in senso filosofico, il soggettivismo è la caratteristica di una dottrina che nega l’esistenza di criteri di verità e di valore indipendenti dal soggetto che pensa o giudica.
In tutto ciò, imbevuti da tali dottrine, come ha ben ri- levato Benedetto XVI credere è diventato più difficile, per- ché il mondo in cui ci troviamo è fatto interamente da noi stessi ed in esso non c’è posto per Dio.
Sempre più la formula “etsi Deus non daretur”1 , come se Dio non esistesse, non è altro che un atto di superbia
1 “Etsi deus non daretur” è una espressione latina, coniata nel 1625 dal filosofo olandese Ugo Grozio; serve ad affermare che il diritto naturale è valido di per sé, indipendentemente dalla esistenza di Dio della ragione che si ritiene bastevole a se stessa e si nega alla ricerca di una Trinità che la trascende. La luce della ragione, “l’ego” di ciascuno si sostituisce dunque alla vera luce, quella del Creatore.
La secolarizzazione in cui non vi è posto per la trascendenza invade ogni aspetto della vita quotidiana e sviluppa una mentalità in cui Dio è di fatto assente dall’esistenza e dalla coscienza umana.
Mettere ordine nel mondo da soli, senza Dio, contare soltanto sulle proprie capacità, riconoscere come vere le realtà politiche e materiali e lasciare da parte Dio come illusione, è la tentazione che ci minaccia in molteplici forme.
Osserviamo come oggi i credenti vivendo nel mondo sono assai spesso condizionati dalla cultura della immagine che impone modelli ben precisi cui è doveroso allenarci.
L’uomo non ha più bisogno di Dio, del suo primato nella storia, della sua salvezza.
Una mentalità consumistica ed edonistica è in netta prevalenza: nulla è più necessario del superfluo! Trionfano la superficialità e l’egocentrismo.
Potere, forme di beni materiali, ambizioni sono tutte tentazioni demoniache, che insidiano gli uomini di oggi con gli stessi tormenti ed interrogativi con cui Satana cercò –
narra il Vangelo di Luca di corrompere Gesù nel deserto.
Si nota intorno a noi una sorta di atrofia spirituale, un vuoto del cuore, un vago senso di smarrimento e solitudine.
Ma per salvare l’uomo è necessario riportare Dio nel suo cuore e nella sua storia.
Non sarà il potere mondano a salvarlo; non sarà l’eco- nomi a sfamarlo; solo Dio può salvarlo e Dio, il Dio vivo e vero, entra nella storia percorrendo le vie dell’umiltà e della semplicità, la via del sacrificio e dell’amore fino al dono di sé.
Per San Francesco da Paola questa umiltà estrema significava soprattutto libertà di servire, libertà per la missione, estrema fiducia in Dio; significava un correttivo alla Chiesa del suo tempo che aveva perso la dinamica dello slancio missionario. Significava affermazione piena del primato di Dio.
Oggi si parla tanto di laicità che si esprimerebbe nella totale separazione tra Stato e Chiesa, per cui quest’ultima non ha alcun titolo nella gestione delle questioni sociali. Vi è dunque un pensiero laico, una morale laica, una scienza laica, una politica laica.
In tutto ciò non c’è posto per Dio, non c’è una legge morale di valore assoluto (ecco il trionfo del soggettivismo). L’uomo ha smarrito il senso del peccato inteso come trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Il peccato è amore di sé fino al disprezzo di Dio.
Per tale orgogliosa esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all’obbedienza di Gesù che realizza la salvezza. Il peccato ferisce la natura dell’uomo ed è un attentato alla solidarietà umana.
Sant’Agostino lo definisce “una parola, un atto, o un desiderio contrario alla legge eterna.
Ebbene, l’uomo del nostro tempo, autogiustifica ogni suo comportamento sotto il profilo del tutto lecito non misurandolo con i criteri ed i dettami contenuti nel Vangelo, in opposizione a quella che è la volontà di Dio, cioè la santificazione di ciascuno. Poiché, ricordiamolo, la santità è la stessa vita quotidiana che deve essere conforme (avere la stessa forma) a Dio, piacere a Lui e testimoniarlo agli altri.
Ma è compito dei credenti, suggerisce Benedetto XVI, opporsi ad un tale stato di cose, elaborando un cancello di sana laicità, che riconosce il vero posto che a Dio spetta ed altresì affermi e rispetti “la legittima autonomia delle realtà terrene” secondo i dettami del Concilio Vaticano II per cui esiste una effettiva autonomia delle realtà terrene dalla sfera ecclesiastica in quanto non sarà certamente la Chiesa” ad indicare quale sia l’ordinamento politico da preferire, ma è il popolo a dover scegliere come meglio organizzare la vita politica.
Non bisogna però considerare come ingerenza della Chiesa il suo intervento nell’attività legislativa, propria ed esclusiva dello Stato, laddove si tratti dell’affermazione e della difesa dei grandi valori che, prima di essere cristiani, sono umani e, in quanto tali, non possono non esigere l’intervento della Chiesa.
E ritorniamo alla riflessione iniziale: soggettivismo e disimpegno morale sono un binomio insostituibile ed antitetico. Quest’anno che si sono celebrati i 50 anni da quel giorno del 1969 quando l’astronauta Neil Armstrong, di- ventava il primo uomo a mettere piede sul suolo lunare, oggi che il progresso passa sì dallo sviluppo della tecnica e della scienza, questo progresso non sarà mai autentico se non accompagnato dalla crescita del senso di umanità, di rispetto reciproco, di fraternità.
L’etica cristiana non è regolata da norme, ma da una persona da amare e da seguire: Gesù Cristo. La morale cristiana è un cammino costante alla sequela di Gesù in una assimilazione progressiva e senza limiti di Lui, il Figlio che piace al Padre e nel quale il Padre si compiace. In Lui noi troviamo la nostra identità. La nostra somiglianza con Lui è voluta da Dio stesso (Gen 1, 26 e segg.). L’errore consiste nel far diventare Lui come noi, invece che noi come Lui! Allora povero Dio e poveri noi!!
L’imperativo fondamentale per l’uomo chiamato a di- ventare ciò che è immagine e somiglianza del Santo, “Siate santi, perché io sono santo” (Lev 19,1) è il fondamento stesso dell’etica.
Prendere sul serio questo imperativo significa per noi incontrare Cristo nel mondo, vedere Cristo in ogni fratello e sorella e quindi rispettarli nella loro dignità divina, per- ché in ogni volto umano risplende per noi Cristo (Altro che disimpegno morale!)
Il Concilio Vaticano II ci esorta a considerare il prossimo, nessuno escluso, come un altro sé stesso. Tenendo conto della sua esistenza e dei mezzi necessari per vivere degnamente. Soprattutto oggi urge l’obbligo che diventiamo prossimo di ogni uomo e rendiamo servizio con i fatti a colui che ci passa accanto: vecchio o abbandonato da tutti o lavoratore, straniero ingiustamente disprezzato o esiliato o fanciullo nato da una unione illegittima, che patisce immeritatamente per un peccato da lui non commesso o affamato che richiama la nostra coscienza rievocando la voce del Signore: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40)
Inoltre tutto ciò che è contro la vita stesa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario, tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, mentre deturpa la civiltà umana, di- sonora colo che si comportano così più ancora di quelli che subiscono violenze e ledono grandemente l’onore del Creatore.
A tal proposito la lezione che ci ha lasciato Don Pino Puglisi è altamente notevole di essere ricordata. Ciascuno di noi, egli ci rammenta, “è come una tessera di un grande mosaico”.
Pensiamo al ritratto di Gesù nel duomo di Monreale. Dobbiamo scoprire quale è il nostro posto e aiutare gli altri a scoprire qual è il proprio, perché si formi l’unico volto del Cristo.
Egli, possiamo ben dirlo, credeva veramente nella forza salvifica del Vangelo. Credeva che l’amore è come il fuoco, se non lo trasmetti, si spegne. “Chi non arde non incendia” diceva Giuseppe Alemanno, fondatore delle suore della Consolata. Se non riusciamo ad incendiare neppure il nostro cuore, quale via della salvezza possiamo intraprendere?
La santità è per tutti. È questa la grande rivoluzione che ci ha dato il Concilio Vaticano II. La santità è il coraggio della verità; è il paradiso raggiunto nel quotidiano; è dare e ricevere. È l’impegno di ogni giorno vissuto con gioia; è la- sciarsi illuminare dal volto di Dio; è accoglienza incondizionata di ogni fratello; è l’impegno perché la giustizia sia per tutti.
L’uomo è immagine di Dio solo quando ama; diversa- mente non è neppure uomo. Senza amore è un essere de- caduto dal suo trono, uno che ritorna indietro nella giungla.
Un cenno a parte merita la scelta della grotta da parte di San Francesco.
Quella scelta è molto significativa: era uno staccarsi dal clamore del mondo, vivere in pienezza il suo rapporto con il Creatore e con il creato, nella pace e nella gioia, nella preghiera assidua, nella povertà estrema, tra digiuni pro- lungati ed astinenza rigorosa. Una missione semplice, la sua, come fu l’inizio della missione di Gesù lungo il mare di Galilea. Una missione che conquistava la gente che presto ad essa rispondendo, diede veri segni di conversione.
Sì, dobbiamo fare il deserto nel cuore dei luoghi abitati. Per il credente che deve lasciarsi cogliere dallo Spirto che anima la Parla di Dio, deserto è essenzialmente la ricerca di Dio nel silenzio.
È vero siamo molto occupati e preoccupati di mille cose e non abbiamo tempo per pregare. Consideriamo la realtà in cui viviamo, l’impegno, il lavoro, le relazioni, le adunanze, le spese da fare, il giornale da leggere, i figli, i nipoti da accudire come un tutt’uno attraverso il quale Dio ci parla e ci conduce. Non è fuggendo che troveremo Dio più facilmente, ma è cambiando il nostro cuore che vedremo le cose diversamente.
Il deserto nella città è possibile solo a questo patto: vedere le cose con occhio nuovo, toccarle con spirito nuovo, amarle con cuore nuovo.
è allora che non occorre più fuggire, alienarsi, chiudersi tra sogno e realtà, dividersi tra ciò che penso e ciò che faccio, andare a pregare e poi distruggersi nell’azione, fare i pendolari tra Marta e Maria, restare permanente- mente nel caos, avere il cuore diviso, non sapere dove sbattere la testa.
Sì, la realtà ci educa e come. La realtà è il veicolo sul quale Dio cammina verso di noi.
(Riflessione proposta da Graziella Giordano Alaimo della Fraternità TOM di Palermo).