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Castellammare di Stabia, 13 febbraio 2021 / Lettera per la Quaresima 2021 di P. G. F. Scarpitta

Carissimi, 
Nell’imminenza del tempo di Quaresima desidero rivolgermi a voi per delle considerazioni di augurio che mi sovvengono dalla lettura del libro di Giona. 
 Si tratta di un testo bellissimo anche per la sua brevità e per la scorrevolezza con cui comunica i suoi contenuti, quindi di facile lettura. Un racconto immaginario, un romanzo contenuto nella Bibbia di cui suggerisco la lettura nelle vostre case.

 Il primo capitolo del libro si apre con un’esortazione a Giona, un profeta realmente vissuto nel secolo VIII a.C. ma del quale si scrive un racconto fascinoso qualche secolo più tardi. Dio comanda a Giona di recarsi a Ninive, una grande città pagana e miscredente a predicare la sua conversione da tutto il male compiuto, perché esso poiché esso ha suscitato lo sdegno del Signore. Ninive è infatti una città perversa, pagana e miscredente. Il nostro profeta prova astio nei confronti dei Niniviti, perciò disobbedisce all’ordine del Signore: anziché recarsi a predicare lì, prende una nave diretta a Tarsis, cambiando completamente itinerario. Durante il viaggio si scatena però una tremenda tempesta e la nave, in balia delle onde e delle mareggiate, è incontrollabile da parte dei marinai e rischia di colare a picco. 
 I membri dell’equipaggio, dopo aver tentato invano di superare il fortunale, pregano ciascuno il suo dio per impetrare la salvezza. Giona invece stranamente dorme in una parte in basso dell’imbarcazione, noncurante del pericolo. Viene però svegliato ed esortato anch’egli a pregare il suo Dio. I marinai poi gettano la sorte (secondo un vaticinio dell’epoca) per capire a causa di chi o di che cosa si stia abbattendo su di loro questa sciagura e scoprono che il colpevole di tutto è Giona, perché ha disobbedito al comando del Signore. Il profeta allora confessa la sua colpa e, pentito, suggerisce all’equipaggio di gettarlo in mare affinchè la tempesta si plachi. I marinai tentano dapprima senza esito di avvicinare la nave verso la riva per esporre Giona al minor pericolo possibile, ma alla fine decidono di buttarlo fra i flutti marini agitati esclamando: “Signore non imputarci il sangue innocente, perché tu agisci secondo il tuo volere.” 
 Finito Giona in pasto ai pesci, finalmente torna la bonaccia e la nave è salva. Il profeta viene inghiottito da un grosso pesce, nel ventre del quale rimane per tre giorni e tre notti, dedicando se stesso a una preghiera al Signore che diventerà famosa anche nella nostra salmodia. Per volere di Dio, Giona alla fine viene sputato dal pesce e finisce su una spiaggia. 
 Finalmente si convince ad adempiere al comando del Signore e si reca a Ninive, percorrendo la città in lungo e in largo. Esclama: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta.” Il nostro profeta però non ha a cuore la conversione della città: essa è per lui ancora indegna e abominevole e quando il Signore, preso atto del sincero pentimento degli abitanti, risolve di accordare loro il suo perdono, disapprova tale decisione. Dio usa misericordia a Ninive, ma Giona vorrebbe che fosse distrutta inesorabilmente. Si reca poi fuori dal centro abitato e si stabilisce in una capanna che diventa la sua dimora. Dio allora fa crescere accanto a lui una pianta di ricino che gli procura ombra e la guarigione da alcuni malesseri. Giona è entusiasta di quella pianta, se ne affeziona, ma il Signore manda improvvisamente un verme a distruggerla senza rimedio. Il profeta allora è sconcertato e dispiaciuto, anche perché si vede privato dei benefici arrecatigli da quel ricino. A quel punto il Signore conclude il libro con queste parole: “Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”

Questo breve racconto sorprende tantissimo per la sua attualità e per l’immediatezza con cui interpella le nostre coscienze.
La vera colpa di Giona non è stata la disobbedienza, ma la presunzione. Proprio l’orgoglio e lavanità personale sono alla radice della sua infedeltà verso Dio e causa di punizione adeguata per lui. Si riteneva perfetto e impeccabile più dei Niniviti miscredenti, coltivando distanze aristocratiche e perfezionistiche nei loro riguardi, senza porsi il problema se la sua perfezione e la sua fede non fossero solo presunte. Ninive era una città atea e infedele non per sua colp,a ma per un generale degrado culturale dei suoi abitanti; ma il profeta la condannava con toni pregiudizievoli tacciandola di irreligiosità e di immoralità. Ma lui stesso, seppure profeta credente e timorato di Dio, era per caso migliore di quei Niniviti? Non avrebbe dovuto vincere il suo orgoglio e analizzare se stesso anziché usare disprezzo per quella città? Non avrebbe dovuto mostrare sollecitudine e premura affinchè essa si convertisse, anziché disattendere il monito iniziale del Signore?
 E’ soprattutto nella conclusione della storia che Dio mette Giona in seria relazione con se stesso, in modo che prenda coscienza della vanità del suo falso orgoglio: l’episodio della pianta di ricino gli suggerisce infatti in primo luogo che lui nulla possiede di quanto non abbia ricevuto e che ogni cosa ottenuta non dipende dalla sua competenza o dalle virtù innate, ma solamente dalla misericordia provvidente di Dio. Per questo motivo è chiamato alla conversione e all’autocoscienza: piuttosto che sindacare sull’operato del Signore invidiando l’amore che egli usa per quella povera città che comunque alla fine mostra umiltà e deferenza, dovrebbe esaminare se stesso e considerarsi in rapporto a Dio, umiliarsi e ravvedersi, considerando il suo peccato anziché quello degli altri.
 Presunzione e altezzosità spesso albergano anche nel nostro animo. Anche noi siamo raggiunti da benefici che non meritiamo, per i quali omettiamo di rendere grazie vantandoci di essi come se non li avessimo ricevuti (1 Cor 4, 7). Essere stati destinatari di privilegi divini dovrebbe umiliarci, renderci riconoscenti e indurci a considerare i nostri limiti e le nostre imperfezioni. E invece spesso siamo propensi ad elevarci sugli altri, a condannare con distacco il peccato altrui anziché valutare il nostro. Ci sentiamo migliori, più meritori dei cosiddetti “peccatori” infedeli ma omettiamo di considerare che le nostre miserie spirituali potrebbero essere anche peggiori. 
 Inutile nasconderci che tali atteggiamenti di spocchia e vanità si verificano anche all’interno delle nostre Fraternità. Non è raro il caso di taluni che si ergono a giudici degli altri, adottando un atteggiamento pari a quello del profeta Giona, ossia perfetto soltanto in apparenza ma in realtà discutibile agli occhi del Signore. 
 Se raffrontiamo un attimo noi stessi a Giona mentre prende la nave per “allontanarsi da Dio” e vivere in pace lontano da Ninive, scopriamo che la sua condotta non è diversa dalla nostra: siamo consapevoli che Dio ci ha coinvolti e avvinti del fascino della sua Parola, ma quando questa richieda impegno, eroismo, difficoltà e sacrificio, preferiamo stare “lontani da Dio”, attaccati come siamo a noi stessi e alle nostre abituali preferenze. Siamo soliti scegliere di Dio ciò che non reca fastidio o che non ci estromette dalle nostre abitudini, ma “fuggiamo” da lui quando incombono impegni e responsabilità. Tale paradosso si può vincere solamente con la convinzione che un simile atteggiamento è inane e inconcludente: venir meno ai doveri che Dio ci affida procura che ci troviamo a soccombere a ben altre difficoltà più gravi e più onerose. Non è forse vero che Giona, evitato il paganesimo a Ninive, una volta sulla nave si ritrova il paganesimo dei marinai dalla religione differente? Non è forse vero che, venendo meno alla responsabilità della predicazione, si trova poi a dover rispondere di ciò che sta succedendo alla nave minacciata dalla tempesta? Non è forse vero che deve pagare un prezzo che avrebbe certamente scongiurato se avesse obbedito al comando iniziale di Dio? Fuggire al Signore non è soltanto peccaminoso, ma anche illusorio perché procura svantaggi molto più dannosi di quanto invece ci assicurano eroismo e fedeltà. Occorre piuttosto prendere coscienza che solo le vie del Signore sono davvero promettenti e che non esistono alternative alla volontà di Dio per trovare la vera pace e la vera realizzazione. 
 E’ necessario insomma convertirci, assumere cioè il pensiero di Dio su ogni cosa, convincerci della vanità del nostro orgoglio e optare per la compunzione del cuore e per il cambiamento di prospettiva nella ricerca della verità. Ciò per non correre il rischio di legittimare con presunzione i nostri errori e le nostre manchevolezze, a dispetto di noi stessi e degli altri.
 La vera conversione al Signore determina la conseguenza che saremo capaci di vedere gli altri con una lente differente, interpretando la realtà in cui si trova il prossimo con empatia e carità, in modo da fugare pregiudizi e invidie. E così preferire il bene degli altri alla gelosia nei loro confronti, prodigandoci con amore verso tutti, specialmente per coloro che siamo abituati a guardare con sospetto e pregiudizio. A questo serve la pianta di ricino che Giona riceve in dono. Ma a questo serve soprattutto l’umiltà di Gesù Cristo Figlio di Dio, “che non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.”(Fil 2, 1 – 5). Cristo, che avrebbe potuto vantare superiorità e padronanza su di noi ha voluto umiliarsi al punto di farsi considerare colpevole laddove era innocente; al punto da farsi deprezzare dove invece era degno li lode. Come ben sappiamo anche lo stesso Signore Gesù cita il “segno di Giona” (Mt 12, 38 – 41) quale unica pedagogia che dovremmo assimilare: come infatti Giona restò tre giorni nel ventre di un pesce, così egli, morto sulla croce per mano di empi, restò tre giorni e tre notti fra le oscurità del sepolcro. A differenza di Giona però Gesù non merita alcun castigo, ma morendo assume su di sé tutti i castighi degli uomini. Non annuncia la condanna imminente di una città o di un popolo, ma paga lui stesso il prezzo della condanna di tutti i popoli, ottenendo per tutti il riscatto dai peccati. 
 Sulle orme di Gesù umile e penitente, siamo invitati a intraprendere un serio itinerario di conversione perché non “fuggiamo da Dio”, ma perché con dovizia ci “rechiamo a Ninive” innanzitutto per convertire noi stessi accogliendo non soltanto i moniti alla missione, ma soprattutto le sue esortazioni al rinnovamento interiore di noi stessi. Conseguentemente, per avere in noi tutte le ragioni di amore e fedeltà verso il Signore senza riserve o limitazioni; quindi per gioire del bene degli altri, per guardare ai fratelli con occhi di predilezione e non di gelosia, riproducendoci nella concretezza della carità sincera e operosa. 
 Il tempo che la Chiesa ci suggerisce nelle prossime settimane è un’occasione per correre incontro a Dio anziché fuggire da lui. Si avverte in questo tempo la presenza costante del Signore che per primo ci chiama alla comunione con sé accordandoci fiducia ciascuno nelle proprie mansioni o nella propria dimensione di risposta vocazionale; da parte nostra si fa esperienza di quanto sia importante e irrinunciabile corrispondere a tale appello divino per noi stessi e per gli altri. La chiamata di Dio e la nostra corrispondenza incentivano il rinnovamento dell’animo, esaltano lo spirito e donano slancio motivazionale all’apertura verso gli altri, per mezzo di azioni qualitative oltre che di gran numero. Occorre che vinciamo la tentazione di lasciarci mortificare dai soli aspetti apparentemente demoralizzanti della Quaresima, quali il digiuno periodico, la mortificazione corporale, l’astinenza e i sacrifici, che tante volte sembrano diventare la struttura portante di questo periodo liturgico privilegiato. Va piuttosto considerato che questi sono solamente strumenti, coefficienti che incentivano il valore della conversione come scoperta della compagnia del divino e non della fuga. Digiuno e astinenza, uniti alla preghiera e alla carità sono infatti mezzi irrinunciabili per conseguire una meta esaltante, quella dell’intimità con Dio che traspaia nella nostra serenità, nell’elevatezza interiore e poi nella concretezza operosa della carità verso il prossimo. 
 Leggendo il racconto di Giona, ho considerato che il periodo attuale di instabilità e di insicurezza che ci costringe ancora a restrizioni ad oltranza, non è che uno sprone alla conquista della Quaresima da parte nostra, un invito a valorizzare il tempo di lock down e di chiusura come occasione di interiorizzazione e di rinuncia non finalizzata a se stessa ma orientata alla personale edificazione di noi stessi in vista degli altri. 
 Il tempo di coronavirus caratterizza anche quest’anno la Quaresima, ma si identifica a mio giudizio nella sosta forzata del profeta Giona nel ventre del pesce: ottenebrato dalla morsa del cetaceo che lo imprigiona, il profeta non può che prodursi in una preghiera elegiaca di fiducia e di speranza. Confida nel Signore e nella sua bontà, ben consapevole di aver meritato questo castigo per la sua disobbedienza, ma anche convinto che il Signore lo assiste, lo conforta, lo ispira anche nella stessa esperienza di oscurità e di smarrimento a cui lo costringono le viscere del pesce. Comprende che deve toccare il fondo per poi risalire verso il Signore, che deve umiliarsi e concedersi alla prova, ma che in questo non è solo e che una volta superato l’ostacolo potrà rivedere la luce sia materiale che spirituale. Accanto alla prova Dio da’ sempre la via d’uscita e la capacità di sopportazione (2Cor 10, 13) e non permette che siamo tentati oltre le nostre forze. In ogni difficoltà dona anche la possibilità di riscatto e propone in ogni caso se stesso come obiettivo finale di cui godere. Sono convinto quindi che, se sapremo attendere e perseverare, usciremo indenni e vittoriosi da questo tunnel dalla durata ormai di un anno e rivedremo la luce come Giona rivide i colori della spiaggia una volta fuoriuscito dalle fauci del pesce. Confido che questo tempo di Quaresima apporterà copiosi benefici in tal senso se saremo disposti a viverlo con impegno ma anche con fiducia e serenità nonostante le brutture a cui siamo costretti. Ne usciremo rinnovati e trasfigurati nella gioia della carità e il contagio che apporteremo per tutti sarà esponenziale e dalle mille varianti.
 E’ l’augurio che rivolgo a tutti nel Signore e in San Francesco.
 Buona e Feconda Quaresima 2021

P. Gian Franco Scarpitta